Costantino Esposito al “Da Vinci” per parlare dell’irriducibilità dell’io

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Personale scolastico

Giovedì 11 dicembre si è tenuto presso l’Auditorium dell’I.I.S. “Leonardo da Vinci” di Civitanova Marche il VI Seminario in memoria della Prof. ssa Stefania Severini. Ancora una volta questo evento, che nasce dal grande e indelebile affetto dei docenti del Dipartimento di Filosofia e Storia nei confronti della collega, prematuramente scomparsa, è stato occasione di riflessione filosofica di alto livello.

Il tema del seminario è stato suggerito dal Concorso Nazionale della Romanae Disputationes che in questa edizione ha per oggetto la domanda di senso forse più radicale del pensiero filosofico, domanda condensata nel celeberrimo verso leopardiano: “Ed io che sono?Il relatore, davvero d’eccezione, il professor Costantino Esposito – docente di Storia della Filosofia presso l’Università Aldo Moro di Bari – che reduce da un recente soggiorno a Boston per presentare negli USA il suo testo Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca, nonostante i suoi numerosi impegni accademici, con la sua consueta e amichevole disponibilità – come ha sottolineato la professoressa Simonetta Offidani, deus ex machina dell’evento – ha per la quinta volta onorato il “Da Vinci” con la sua presenza divenuta ormai, come ha detto il Dirigente scolastico Francesco Giacchetta, nei suoi saluti iniziali, un gradito “rito” per tutta la comunità scolastica e la cittadinanza invitata a partecipare.

Presa la parola, il professor Esposito, ha iniziato la sua lectio – intitolata Il nostro io come esperienza irriducibile: la scoperta di essere sé stessi – affermando che visto il tema – il problema l’io – quest’anno si auspicava che il rito risultasse un po’ inquietante per tutti! E il perché lo ha spiegato subito: l’io che sembra la cosa a noi più vicina è, in realtà, la più lontana perché spesso viviamo la nostra soggettività “con il pilota automatico”, dando per scontato l’io che noi siamo, e assumendo come noto ciò che noto non è affatto. Per questa ragione, bisogna tornare ad inquietarsi per l’io, occorre ritornare a metterlo in questione nella consapevolezza che ciò che si può capire di esso lo si deve inevitabilmente patire. Dunque: che cos’è l’io? Cosa dice questo pronome?

Per molti l’io è un fenomeno del pensiero moderno e, in quanto tale, costituisce una sorta di “residuato bellico” da far brillare per mettere in sicurezza la vita della gente perché l’io, Esposito lo dice con un gioco di parole, è oggi un impiccio, un impaccio, perché è un ente che desidera e lo fa inesauribilmente: non appena un desiderio pare soddisfatto, l’io riprende a desiderare di nuovo, e ancora, e poi ancora … Se l’io è questa incessante inquietudine, allora, meglio sbarazzarsene. Altri, i cosiddetti post-moderni, sostengono invece che io sia sinonimo di narcisismo e che quindi il noi sia da preferire ad esso senza rendersi conto però, ammonisce Esposito, che quando il noi si sostituisce completamente all’io il pericolo è in agguato! Ora, sia nel primo che nel secondo caso, fa notare il relatore, il messaggio sottointeso è che sia preferibile rinunciare all’io perché vuole troppo.

Dopo aver presentato questi tentativi di eliminare l’io – tentativi magistralmente messi in scena dalle serie tv americane come The white lotus o Pluribus – Esposito tenta di recuperare l’io mostrandone quell’irriducibilità evocata nel titolo del suo intervento. Illustrate le argomentazioni con le quali i detrattori dell’io cercano di superarlo, il professore inizia il suo viaggio a ritroso nel tempo per andare a recuperare i due pensatori che, in epoche diverse, e, soprattutto, in orizzonti metafisici molto distanti, hanno teorizzato l’io, mostrandone l’intrascendibilità, ed hanno, altresì, lasciato in eredità ai posteri – cioè a noi – gli argomenti per difendere l’io da ogni assalto riduzionistico. I due pensatori in questione sono: il grande Padre della Chiesa Agostino d’Ippona e il razionalista, fondatore della Filosofia moderna, Cartesio.

Agostino, nel suo capolavoro Le Confessioni, per l’appunto si confessa, ossia dice di sé ad un Tu, il Tu del vescovo di Ippona è Domine, ossia il Dio Cristiano, e non potrebbe essere diversamente visto che egli racconta la sua personale esperienza, ma, come fa notare Esposito, c’è qualcosa di universalmente valido nella vicenda esistenziale di Agostino: egli è un uomo che ha capito chi era nel rapporto con un altro. Egli ha compreso di “essere per l’altro” (Ad te, scrive nelle Confessioni) e che questo vale per ogni creatura. Tutti siamo per altro: sia come origine, in quanto siamo nati – il nostro io, diversamente dal soggetto moderno non si auto-pone ma riceve sé stesso – sia come desiderio di essere. L’altro, dunque, fa strutturalmente parte della vita dell’io, di ogni io, tanto che, sebbene appaia paradossale, più si va al fondo di sé stessi quanto più si scopre che un’alterità ci abita.

Alla stessa scoperta, per altra via, giunge anche Cartesio. Il filosofo francese nelle sue Meditazioni metafisiche, dubita di tutto, persino del fatto di avere un corpo, ma nel dubbio trova in sé un’idea innata – quella di Infinito – che lui non può aver creato da sé stesso e nel chiedersi la provenienza di tale idea si rende conto – proprio come Agostino – che in sé c’è qualcosa che rimanda ad altro da sé. Dunque, anche il soggetto cartesiano che sembrava solipsistico, cioè fondato su sé stesso, scopre in sé che c’è qualcos’altro di diverso da sé in sé, ossia l’idea di Infinito di cui non può essere l’autore. Il contenuto dell’idea di Dio, infatti, va oltre il pensiero, sfonda l’idea, è un pensato nel nostro pensiero che trascende il nostro pensiero. È così che Cartesio ha scoperto di non essere solo nell’universo. In alcuni passaggi, il filosofo giunge addirittura a dire che prima della perceptio mei c’è la perceptio dei. In altre parole: nel pensiero la percezione dell’infinito (Dio) viene prima di quella del finito (noi stessi). L’Infinito ci precede. Arrivato a questo punto, Esposito legge quelle poche ma densissime righe che, ai suoi occhi, rendono grande Cartesio: “In che modo […] intenderei di dubitare e di desiderare, se io non avessi già questa idea di infinito? Non potrei neanche dubitare perché mi basterebbe tutto quello che vedrei”. Dubbio e desiderio. In questa endiadi, secondo Costantino Esposito, Cartesio svela che si dubita non perché si è cinici ma perché si desidera il vero e il vero lo si può solo desiderare. Pertanto anche nel filosofo del cogito si evince – e con ciò Esposito chiude la sua bella e inquietante lectio – che al fondo del soggetto l’ego è qualcosa che dice rapporto con un altro, anzi che è in qualche modo preceduto da un altro e che quindi deve costantemente riconquistare sé stesso.

Dopo un meritato scroscio di applausi, la professoressa Offidani dà il via libera alle domande del pubblico che non tardano ad arrivare e sono soprattutto le studentesse e gli studenti – i “giovani io” che si stanno formando al “Da Vinci” – a formulare domande talmente belle e interessanti che il professor Esposito per rispondere aggiunge a quanto già detto ulteriori riflessioni incentrate, fra l’altro, sulla questione della libertà e sulla grande valenza politica della meditazione sull’io. Ed è accaduto così, ancora una volta, che la viva memoria di una grande insegnante, Stefania Severini, e il rito della lectio di un fine e profondo storico della filosofia, Costantino Esposito, abbiano dato vita a un evento di grande spessore umano e culturale.

[Lara Bevilacqua]

 

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