Semi di speranza
Più di cinquanta conflitti si stanno svolgendo nel mondo in questo preciso istante.
Mentre io batto le dita sulla tastiera, mentre tu leggi queste parole, in un qualche posto che sembra tanto lontano, che siamo abituati a vedere solo sulle cartine, un ragazzo sta
perdendo la possibilità di vivere in pace. La nostra posizione privilegiata di adolescenti di un paese distante (perlomeno fisicamente, ideologicamente è un’altra storia) dalle guerre, si
nota perfettamente il 7 ottobre, nell’auditorium del Da Vinci. Noi, seduti sulle nostre comode sedie, nella nostra comoda scuola, qualcuno un po’ distratto, ad ascoltare chi viene da un
paese dove tutto questo non è affatto scontato.
Tre rappresentanti del comitato “Civitanova per la pace”, Ilaria Melatini, Alessandra Broccolo e Federica Pietrella (docente del nostro liceo) accompagnano Robert Chelhod, siriano,
rappresentante dell’ONU dei popoli e del progetto AMU (Associazione Mondo Unito) “Semi di speranza”. Lui ci racconta la sua vita, un’infanzia segnata prima dalla guerra civile in
Libano, poi da quella in Siria, durata dal 2011 al 2024.
E proprio sentendo le sue parole sul suo percorso scolastico, quasi mi sento in colpa. Il suo è stato un percorso accidentato, con la scuola che spesso chiudeva a causa del conflitto, ma
contemporaneamente così ostinato. L’istruzione è un’arma, è ben chiaro, e forse per questo fa tanta paura ai regimi. La guerra non ha però impedito a Robert di andare a studiare
chimica all’università, all’estero, così come non gli ha impedito di tornare nel suo tanto amato quanto sofferente paese.
La sua città, Aleppo, è in particolare una delle più antiche del mondo, ed è stata oggetto di più attacchi terroristici, che ne hanno distrutto molti siti archeologici. Sembra quasi che
cancellare il passato, agire con la distruzione di una memoria collettiva, sia uno dei principali metodi che gli uomini di guerra attuano. Come se la cultura fosse la seconda grande vittima
delle guerre, dopo il popolo.
“Ho visto il mio primo cadavere a dodici anni”, dice Robert. Una frase che ci fa venire i brividi, ma che ci mette davanti a una cruda realtà: questa, per milioni di persone nel mondo,
è la vita quotidiana. Com’è possibile voltarsi dall’altra parte?
“In Siria ci siamo abituati a una vita anormale”, ci dice Robert, e ci racconta di come il progetto “Semi di Speranza” stia cercando di dare una nuova vita ai siriani, di far capire loro
che c’è una possibilità di riscatto. Tutto parte dal “piccolo”, un forno regalato a una donna che sogna di fare la pasticcera, sedute di fisioterapia a chi ha problemi motori, doposcuola
per i bambini, gesti che accumulati possono davvero fare la differenza. Non basta ricostruire le case, le infrastrutture che tanto sono carenti in Siria, non basta il crollo del regime per
mettere fine a una guerra: questa rimane impressa negli occhi dei bambini obbligati a crescere troppo in fretta, nelle mani degli uomini che hanno impugnato armi contro la loro
volontà. Per questo, oltre ai mattoni, vanno poste nuove basi per le persone: è impossibile per un popolo ripartire se si è persa ogni speranza.
“Non possiamo rassegnarci alla complicità, non possiamo essere complici”, ci dice Alessandra Broccolo. Quando la politica pensa a mantenere i sottili fili delle relazioni
internazionali saldi, spesso rendendosi proprio complice della violenza, sta a noi persone comuni “allargare il nostro cuore” e agire, nel nostro piccolo, per dimostrare solidarietà,
grazie soprattutto all’aiuto delle associazioni umanitarie. Siamo noi ad annaffiare quei “semi di speranza” e a far sì che da essi riviva, più forte di prima, la pace.
Sergi Greta
Personale scolastico